redacted

Redacted, film del 2007 di Brian De Palma, censurato e ostracizzato come pochi (o forse
non troppo pochi) nella storia del cinema, non ci vuole raccontare l’insensatezza della guerra in Iraq quanto mostrarci quel che già conosciamo e che diciamo di non conoscere, ciò che è vicino e lontano allo stesso tempo.
Brian de Palma racconta una storia vera, lo stupro di una giovane irachena e il massacro
suo e della sua famiglia, eppure nell’intrigato gioco di realtà che è il film stesso, la storia
vera è solo quel che c’è prima, e quel che vediamo è una possibilità di realtà, come una
storia possibile in un contesto quella della guerra, dove le atrocità in quanto quotidiane sono
cronaca, dati, racconti noiosi. Finito il film non sappiamo se quei nomi sono di persone
realmente esiste, ma sappiamo che tante storie simili stanno accadendo da qualche parte del mondo.
Così la potenziale realtà ricostruita dal regista nasce dalla nostra realtà, a essa ritorna
nell’evoluzione involutiva di un sistema smaliziato, dove censura e demagogia spesso
agiscono senza reale paura di sommovimento per nascondere il dato di fatto che “in guerra
la prima vittima è la verità”.
Ma forse la verità non sparisce soltanto con la guerra. Eppure l’uccisione della verità è
cosa diversa dal gioco che l’essere umano usa come mezzo per la comprensione del reale
stesso; ed è cosa diversa anche dal racconto di questa stessa uccisione.
Così la complessità e allo stesso tempo l’appiattimento messo in scena da Redacted è
espressione del paradosso della nostra società e delle nostre soggettività.
Se è vero che il cinema ci serve come termometro dello stato di salute del nostro intero
sistema di vita, se è vero che il cinema nasconde e rivela i nostri paradossi, Redacted nella
sua composizione di essere raccontato e frammentato in molteplici punti di vista
estremamente meccanici ma anche terribilmente umani, ci può servire come materiale che
scateni in noi domande sulle nostre stesse chiavi di lettura. Un’autoanalisi teme cosa può
scoprire ma non per questo si ferma.
La partita si gioca anche su termini come emotività, desiderio, coscienza, plurisensorialità
e molti altri termini del linguaggio postmoderno.
Ma (con) cosa ci lascia la visione di Redacted?

I capitoli del film.
I film, soprattutto una volta versati sui supporti degli ultimi decenni, sono scomponibili.
Qualsiasi storia è divisibile in parti. Redacted non fa eccezione, ma la sequenzialità delle
varie parti di Redacted non fa della storia raccontata un intero dalle sembianze organiche
ben strutturate che ci lasci con la sensazione di un intero finito del quale abbiamo possiamo
gestire l’essenza. Questo perché il regista sceglie di raccontarci un unico fatto facendo
letteralmente parlare tutte le parti in causa, persino quelle che nella realtà della guerra non
ne possiedono, se non raramente, i mezzi, cioè i media.

Il patto.
Il film inizia stabilendo un patto con lo spettatore, cosa che di solito necessitano di fare i
documentari per garantirsi la fiducia di quest’ultimo, ma quello che Redacted dichiara è un
paradosso. Su schermo nero parole scritte in bianco e lette da una voce off appaiono per
scomparire venendo presto cancellate. Apprendiamo che il film è un racconto di fantasia
basato su una storia vera e che il materiale è stato preso dalla stampa, dai media, ma che per noi spettatori è importante non confondere il materiale di fiction del film con il materiale reale (della vita). Alla fine rimangono solo otto lettere, “Redacted”, cioè materiale
manipolato al quale appunto sono state cancellate delle parti prima di essere “mandato alle
stampe” (prassi normale per i media soprattutto main stream) e quindi al quale è stata negata la complessità, ovvero la possibilità di essere un dato utile per la comprensione del reale.
Eppure il paradosso è doppio. Non solo un film di fiction si comporta come un
documentario per negare le qualità stesse del documentario, ma ciò che si appresta a fare e
riproporci la complessità negata con la logica confusa e ingannatrice dello stesso sistema
che si è occupato di cancellare quelle parole iniziali (sistema che ha messo nella lista nera
della CIA il film), e infatti sotto il titolo appare una nuova frase. «Redacted documenta
attraversa le immagini gli eventi accaduti nel 2006, prima, durante e successivamente allo
stupro e all’eccidio di Samara».
Così un nuovo patto che si oppone (o è complementare?) al primo viene sancito. Quello
che incomincerà a venir visto è materiale manipolato, manipolato già nella sua stessa natura di essere azione ripresa da telecamere che scelgono di inquadrare volta per volta pezzi di realtà piuttosto che altri. Ma è materiale manipolato aldilà del limite ontologico del mezzo.
E’ materiale manipolato arbitrariamente dall’ideologia e poiché la selezione è arbitraria
quanto volontaria, è la sua naturale paradossale che mina la logica stessa del medium che
mostrando ci nasconde (e viceversa). Il film insomma dichiarando di fare entrambe le cose
ci pone in una posizione di potenziale attività quanto di potenziale passività. A noi la scelta.
Credere o non credere. Ma non sappiamo ancora a cosa. Se alla mostrazione o al
nascondimento.
Ma nessuno dei due espedienti è perfetto ed essenziale.

A team.
Scritte di presentazione su una ripresa del cielo ci dicono che stiamo vedendo il diario
visivo di un soldato, che sentiamo ancora in voce off. Una lenta zoomata prima ci presenta
lo scenario militare e poi si stringe su un gruppo di militari che salutano chi li riprende.
Fermo immagine e con effetto da montaggio casalingo l’immagine si riapre sul soldato
regista Salazar che si riprende allo specchio. Potrebbe essere lui il protagonista della storia
che sta iniziando. Si avvicina presto un secondo soldato McCoy, anche lui ha una
videocamera, questo fa girare Salazar vedendolo allo specchio, arrivargli da dietro.
Riprendendosi a vicenda grazie allo strumento, i due stabiliscono anche loro un patto. E’
come un monitorarsi a vicenda, un prestare attenzione più all’altro che a se stessi, eppure
l’azione della ripresa è accompagnata da una discussione per niente banale, che riguarda il
rischio continuo di morire, in questa guerra, lontani da casa.
Così è McCoy, e non Salazar, il quale stava apprestandosi a fare un’autobiografia quasi
politica sulla sua condizione di povero in quanto messicano e individuo che subisce sia il
classismo sia il razzismo della società, è McCoy a dirci la prima frase (politica) che ci
permette di entrare nel vivo della storia. E’ McCoy ad esplicare la sua riflessione
(personale): la prima vittima a morire non sarà un soldato ma la verità. Viene deriso da tutti per questa affermazione. Soprattutto da Salazar, che nonostante stesse dimostrando un certo grado di consapevolezza su come funziona la sua nazione della libertà, rivendica adesso il potere della macchina di riprendere il vero. E che questo potere è in grado persino di permettergli una volta tornato a casa di accedere all’università, al sogno (negato) che in
america tutto è possibile se se ne ha la volontà.
Stranamente la frase di McCoy spaventa tutti più della morte fisica stessa. Un grado di
coscienza dei soldati che ci appare e ci sfugge. Perché la morte della verità li fa tanto
innervosire? Cosa temono?
Salazar riprende il controllo della visione per poterci spiegare quale è il loro compito.
Presidiano uno dei tanti checkpoint. Scherzosamente lui stesso confessa che sono «nella
merda» anche se sta dicendo che ancora niente è successo di interessante. Qualcosa continua a sfuggirci. Forse la logica causale che conosciamo.

Il documentario francese.
Una musica arabeggiante fa da colonna sonora a un documentario ovattato. “Barrage” il
titolo. Un film di due registi francesi. Una voce femminile dice che i soldati che presidiano
il posto di blocco devono prendere ogni giorno decisioni di vita e di morta. Qualcosa di
molto difficile che è accompagnata però da una immobilità delle immagini. I soldati e il loro
contesto si muovono appena. Così è la Sarabanda di Handel la nuova colonna sonora (la
stessa musica che Kubrick aveva scelto per il suo Barry Lyndon, personaggio passivo
quanto attivo e viceversa del’800). Mentre la voce off ci fornisce dei dati, uno dei soldati
ripresi allontana un bambino e suda. La fotografia è calda. I dettagli sono visibili. E’
pellicola o digitale?
In ogni attimo Redacted problematizza vari livelli dell’immagine. Mentre la voce del
soldato americano descrive le immagini dicendo che il checkpoint è preannunciato da una
vastità di cartelli scritti in arabo e in inglese, la voce della donna commenta che le statistiche dicono che la metà della popolazione è analfabeta. Abbiamo sempre almeno due possibilità di accesso al reale davanti a noi. Ma non ci è richiesto di scegliere subito eppure la nostra mente ne sente l’urgenza. Il nostro sforzo di comprensione è tradito e rinvigorito
continuamente. La stessa voce femminile che insinuava il dubbio sull’attenzione americana
a farsi capire degli indigeni, porta i soldati americani verso il ruolo di vittime, in quanto
uomini sottoposti a continua pressione psicologica. Come all’inizio, anche adesso è il
dualismo buoni-cattivi, morte-vita che viene ripristinato, appiattendo in tal maniera la
complessità che un documentario dovrebbe aprire. E questo dualismo è in mano alla
coscienza dei soldati americani, un potere che li rende vittime-carnefici, cioè un altro
dualismo che non ci dice più di tanto, come dire che mantenersi su una comprensione
dualistica non ci porta ad alcun cambiamento.
Prima di pronunciare la frase che alleggerisce, appesantendole, le responsabilità etiche
dei soldati, la voce off è stata zitta in una ripresa che nella sua impossibilità o meglio nella
sua esecuzione impossibile è da chiave a tutta la logica di vero/falso del film.
Mentre i soldati aspettano le macchine per poterle fermare al check point, l’obbiettivo
della macchina da presa (o della telecamera) sta dentro una macchina irachena. Eppure
siamo (o crediamo di stare) ancora “dentro” al documentario francese. Niente di strano
potrebbe esserci la troup del documentario dentro la macchina che si accinge ad attraversare il posto di blocco. Ma le apparenze del desing interno alla macchina non ci stanno ingannando. E una macchina di iracheni. La ripresa si sposta di nuovo fuori, “dalla parte dei soldati” e vediamo ripresa la macchina dove il nostro sguardo “era dentro” fino ad un istante prima: scendono due uomini e una donna autoctoni. Come è stata possibile la ripresa dall’interno di una macchina di persone esterne sia al documentario francese sia al diario visivo di Salazar? A persone che di sicuro con se non portano nessun tipo di ingegno che riprenda il reale?
Semplice la macchina che vediamo dall’interno non è quella che vediamo vista da fuori e
dalla quale scendono i tre iracheni. Di un oggetto che pende dallo specchietto retrovisore
della macchina della ripresa interna non sia ha traccia nella macchina vista dall’esterno. La
ripresa interna potrebbe essere fatta dalla troup del documentario come da qualsiasi altra
persona dotata di attrezzatura per registrare le immagini in movimento. Non ha importanza.
Quel che ci è suggerito dal film è che tutti i film vengono montati con espedienti tecnici,
con manipolazioni. La manipolazione può uccidere la verità, ma a ben guardare una traccia
di qualsiasi azione rimane.
Le immagini riprendo frenetiche, un via vai insensato, una possibilità di navigazione
in uno spazio delimitato come quella dei videogiochi.

Il positivismo della “visione comunista”.
«Appuntamento a Samara! Che c’è da dire su Samara?- Niente.» Salazar vuole
intervistare il soldato Blix che legge un libro, è l’intellettuale del gruppo. Ma il libro che
legge è una storia normale e il titolo centra poco con la storia. Questioni commerciali. E
sono queste quelle che Blix ha presente mostrando verso Salazar una diffidenza per il suo
lavoro filmato, e dichiarando anche lui la mancanza di fiducia nella camera come strumento
di verità. Ma Salazar non lavora per i media, vorrebbe fare lui informazione, e come i media
però spaccia il potere veritiero e onnipotente dello strumento. Blix allora dice che se non è
per i media che lavora il suo intento è di fare una “versione comunista” della loro missione.
Comunista è sinonimo di “critica” o di “manipolazione”? Anche qua una sottile analisi
traspare dalle parole dei soldati ma è spia di una paura quasi atavica più che di un qualcosa
di riproducibile con le parole.

L’iniziazione del soldato Flake.
Flake è uno degli ultimi arrivati. Accettando un dolce da un ragazzino iracheno
commette un atto sconsiderato e irriflessivo agli occhi del sergente Sweet, che lo riprende
subito. Non bisogna fidarsi. Flake impara che il gesto umano-quotidiano non gli è concesso
in quanto soldato. Le sue priorità sono altre. Il sergente nero Sweet trasmette al suo
inferiore, e lo fa riprendere da Salazar, una sorta di “razzismo pragmatico”. Flake è una
specie di parassita della società che è andato in guerra per fare qualcosa o per scappare ad
una punizione del sistema, l’Iraq è il posto meno adatto dove poter agire la civiltà, o
l’umanità. Doveva pensarci quando stava a casa sua ad essere in un certo modo, questo
impara. Ci sono luoghi dove comportarsi in un modo e altri in un altro. Qua il dualismo è
mostrato con evidenza nel rude linguaggio del soldato nero che conosce certe dinamiche e
non ha interesse a nasconderne l’ipocrisia.

Dal documentario alla tragedia.
La voce off femminile descrive l’iter ordinato di come si effettua il blocco al checkponit,
ma la sequenza che si appresta a venir vista tutto è tranne che tranquilla. Una macchina non si ferma e i soldati sparano. La voce off da i dati delle uccisioni massicce dei civili
commesse dai soldati. Un uomo esce dalla macchina, ed è disperato, stava portando la
moglie incinta in ospedale. Adesso lei è in fin di vita perché il soldato Flake ha sparato
secondo le regole o secondo la paura, fa lo stesso, una giustifica le altre e viceversa.
La TV locale si limita a compiere le inquadrature dentro l’ospedale. Ma oramai il danno è
fatto. La ripresa dell’uccisione della donna de parte dei militari è in mano a non si sa chi.
Non sappiamo neppure chi l’abbia fatta. Oramai non ce la poniamo più questa domanda.
L’assuefazione al caos di immagini, dati, origine degli stessi incomincia a farsi sentire.
Cerchiamo di entrare nel flusso della storia, che la storia stessa nel suo modo di essere
narrata ci nega e ci impone.
Flake è diventato un soldato!
Salazar, colui che vorrebbe filmare il reale, ma che filma solo la banalità della loro vita
dentro alla caserma, si avvicina al soldato Flake. Ne fa una presentazione comica mentre
quello che ha appena ucciso una donna incinta sfoglia un giornale porno. Sono sempre le
immagini che ci fanno capire la qualità delle cose e delle persone. Flake adesso parla un
linguaggio molto diverso dallo sbarbatello che innocentemente voleva essere solo gentile.
Adesso è cinico, ovviamente razzista. Il soldato Rush lo difende. Qualcun altro cerca di
problematizzare anche se con linguaggio razzista sempre insinuando, come la voce off del
documentario francese, che il sistema di “bloccaggio” del checkpoint non è efficace. Come
se fosse questo il problema. Come se fosse solo una questione di modi, la guerra. Ma Rush è
più concreto, pragmatico. In guerra non ci può essere lo spazio della riflessione etica.
McCoy è l’unico che cerca di parlare di problema morale, ma il suo discorso è troppo
“spirituale”, e incoerente per essere preso sul serio.

“Clerks”.
Rush, dopo che il gruppo è stato avvisato di potenziale pericolo, dice a Flake che gli
sembra di stare dentro al film “Commessi” dove in una giornata succedono un sacco di cose
inaspettate e assurde ma concrete. Salazar lo riporta alla impossibilità di essere altrimenti in guerra. I soldati se lo devono ricordare reciprocamente. Ma un attimo dopo Salazar
autoriprendendosi legge enfaticamente il libro di Blix. Ha bisogno cioè di ricorrere ad un
racconto per non disperdersi nel reale, o per non affrontarlo.
Dopo questa ennesima oscillazione possiamo accedere ad un nuovo livello di visualità.
Tramite un sito internet arabo ci viene mostrata la registrazione notturna di un qualcuno che lascia un qualcosa vicino alla postazione di due soldati in guardia che passano per incapaci non accorgendosi di niente. Quel che sta avvenendo è potenzialmente visibile a tutto il mondo, ma l’informazione non arriva a tutti. Infatti la mattina dopo mentre i soldati
discutono perché il sergente si è reso conto che un oggetto che il giorno prima non c’era
scoppia una mina, e a morire è proprio colui che era il più cosciente del pericolo. Il video
della morte di Sweet ci viene riproposto da un altro punto di vista di una videocamera più
lontana che adesso rimanda la sequenza sul sito internet arabo visto in precedenza.
I soldati si lamentano davanti ad una nuova videocamera di video sorveglianza
all’interno della loro stessa caserma. Uno con l’altro si eccitano a pensare una vendetta. Eì da questo momento questa angolatura è testimone di tutte le decisioni violente prese dai soldati e della violenza fra loro.

La potenza della TV occidentale.
In visione notturna, una TV occidentale riprende l’assalto dei soldati ad una casa di
iracheni. Le donne urlano, gli uomini vengono arrestati. La reporter intervista Rush il quale
prende dei fogli a caso dalla casa dicendo che sono prove per incolpare gli arrestati. Ma
quando le domande della reporter si fanno insistenti la TV viene invitata ad uscire. Nella
violenza gratuita dei soldati la reporter si trova a fare da traduttrice delle richieste delle
donne, ma i soldati non ascoltano e si giustificano dicendo che agiscono secondo le regole.
Ma le regole sono già state scritte e non vengono neppure lontanamente analizzate.
Adesso è nuovamente il documentario francese con la solita Sarabanda a presentarci
la quotidianità del posto di blocco che persino i bambini devono subire per andare a scuola.
Rush e Flake (ma adesso non possiamo pensare che sia il documentario a mostrarcelo
perché sarebbe una libertà troppo grande che i soldati si sono presi) fermano una ragazza e
una bambina, figlie degli arrestati ed è chiaro che hanno cattive intenzioni sulla prima. Rush
la controlla per palpeggiarla e la lascia andare via.

La partita a poker.
Salazar riprende la partita dove Flake e Rush dichiarano di voler tornare nella casa a
violentare la ragazza, per vendicarsi. McCoy e Blix si oppongono. Flake ordina di spegnere
la videocamera e stavolta Blix abbandona la sua visione negativa nei confronti dello
strumento e lo valuta per quello che è, uno strumento appunto, che può essere utile. Dice di
lasciarlo accesso. Ne vede la potenzialità testimoniale. Flake insiste e Salazar finge di
spegnerlo. I due oppositori tentano con la retorica e con una certa demagogia di distogliere
Flake e Rush dall’intento. Il dualismo tra buoni e cattivi però non è abbastanza complesso
per opporsi alle volontà violente degli altri due. Salazar interrogato da Rush dice che vuole
venire anche lui. McCoy è scioccato, ma questa cosa lo spinge a decidere di andare anche
lui per controllare la situazione, non è chiaro se sia interessato a difendere i compagni da
eventuali pericoli o se stia ancora sopravvalutando la propria capacità di riportare ad una
morale che dovrebbe essersi reso conto vede solo lui. Forse, la coscienza è una cosa troppo
individuale per avere effetti nella prassi collettiva, ma McCoy non ha altri strumenti se non
questa. In qualche modo il suo “monitoraggio” non è troppo diverso dal positivismo cieco
che Salazar ripone nello strumento videocamera, ma almeno quest’ultimo incomincia ad
essere più coerente con il sistema e a perdere in idealismo: oramai è chiaro che partecipa ad uno stupro per farci su un video potenzialmente vendibile che gli spiani la via al cinema
(anche se non lo ammette davanti a Rush, ma lo confesserà solo dopo a McCoy).

Just a soldier’s wife.
La moglie di McCoy tramite webcam legge in rete quel che il marito le ha scritto che
stanno andando a fare, una cosa troppo vaga ma comunque allarmante. La moglie è
preoccupata e dichiara online che il messaggio che ha ricevuto oggi è diverso, se fino ad ora
gli servivano a non preoccuparsi, questo la terrorizza, teme per il marito.

McCoy conosce il mondo.
Il messicano confessa alla videocamera di averne montato una sul proprio casco per
riprendere la cosa. E infatti subito dopo McCoy, ripreso dalla videosorveglianza interna, il
quale ha capito le intenzioni di Salazar le confessa a Blix come per convincerlo che il
sacrificio della giovane servirà a smuovere l’opinione pubblica. Ma tutto è sottointeso e
questo ennesimo idealismo viene ucciso dall’arrivo di Rush che riporta tutto sulla sua logica
violenta ma reale.
In ripresa notturna McCoy prima cerca di fermarli vedendo che i due sono realmente
intenzionati a fare quello che hanno detto, poi se la prende con Salazar buttandogli addosso
il suo cinismo, il quale permette una violenza solo per diventare famoso, poi va dentro a
fermare i due che stanno già per violentare la ragazza e picchiando il resto della famiglia.
McCoy non riesce a fare altro che lasciarli fare mentre Salazar riprende lo stupro e
l’uccisione dei familiari finché non sopporta più la vista così anche lui esce, mentre Rush
continua a violentare la ragazza. McCoy, quando il messicano torna in caserma lo blocca per
chiedergli cosa è successo, perché ha sentito gli spari. Ma arriva Rush e lo minaccia davanti
alla videocamera, poi minaccia anche Blix. McCoy oramai è sottomesso e dice che non ha
visto neanche l’incendio e apprende da Rush la (sua) versione ufficiale, la quale vede come
responsabili dei fantasmatici ribelli. Tutto è filmato da una videocamera che però non viene
mai chiamata a testimoniare quando la storia uscirà fuori.

La verità.
Una TV locale intervista l’uomo che era stato ingiustamente arrestato al quale hanno
appena violentato e sterminato la famiglia. Lui dice che la versione degli americani è
assolutamente irreale.
Poi un’altra ripresa può essere chiave di quel che è successo, la quale filma Salazar che
si sottopone ad una seduta dallo psicologo. Il suo odio è nato dalla morte di Sweet, ma non è
solo l’odio colpevole di quel che accade in guerra. Salazar ammette che le azioni non sono
sempre commesse per necessità e che certe cose non vanno viste e che il solo vederle è
partecipare. Questa è un’assunzione di responsabilità che fa da specchio a quella fatta in
video conferenza tra McCoy e il padre, il primo vuole denunciare il fatto ma il padre lo
dissuade anticipando che finirà vittima lui del sistema e che l’america non ha bisogno di altri
scandali, tra nazionalismo e pragmatismo il padre non riesce a convincere il figlio.

Il punto di vista iracheno.
Mentre Salazar si autoriprende in strada, forse vuole registrare un momento di verità,
prima che possa dire niente viene rapito da alcuni militanti iracheni e portato via in
camioncino. Per la terza volta vediamo attraverso il sito internet arabo un video dove un
pastore iracheno ritrova il corpo decapitato di Salazar. Non è la sola conquista di un medium
da parte dei nemici degli americani. Su tutte le TV va in onda l’esecuzione del soldato
americano. Ma prima è la TV occidentale (forse europea) ad avere voce mandando in onda
il ritrovamento del corpo. Così come all’inizio, con l’uccisione della donna incinta la visione
era in mano a non si sa chi, di sicuro a chi ha il potere del medium ma non fa uscire la
verità, e la morte oramai compiuta ma non visibile della vittima veniva trasmessa nel
patetico ospedale dalla TV locale, così ora per un inversione di potere la morte in atto è in
mano al carnefice iracheno e la morte come dato di fatto al telegiornale apatico, sia
occidentale che arabo.

Il memoriale.
Flake e Rush si sono impossessati del mezzo di Salazar, definito una sorta di soldato
Ryan, ma il tono è cinico – ironico. Flake impossessatosi anche del corpetto si Salazar (dove
ha messo una croce enorme) non parla di quest’ultimo ma della lezione di vita che gli ha
dato il fratello, Vegas, da Las Vegas perché loro padre era un giocatore. Una famiglia
disastrata la loro, perché il fratello invischiato in elezioni truccate è stato autore anche di un
pluriomicidio. Il tutto raccontato mettendo in evidenza il tempo veloce, come un videogioco
dove il tempo compare al lato dello schermo anche nella realtà dell’uccisione allo stesso
modo non ci vuole molto per compiere la stessa azione nella realtà. L’insegnamento è
racchiuso nella “lezione che quando sei in una missione molto pericolosa tutto sta nell’avere
con se’ le persone giuste”, gente come lui e il fratello. Che però una volta finito in prigione è
stato punito; basta “un solo spione” per far crollare il castello. L’abilità è nel tenere a bada
queste figure. Forse. McCoy non ha visto nulla e Salazar è morto.

Dichiarazioni.
E infatti il massimo attacco che i due subiscono è un video a volto coperto e a voce
truccata che qualcuno, ovviamente McCoy, posta su internet, anche per cercare aiuto da altri possibili testimoni.
Ma non ce ne saranno e McCoy si ritroverà da solo contro una commissione militare che
sempre filmando l’interrogatorio lo espone alla logica del dato di fatto. Il succo è che lui non
avendo visto di persona quello che è successo ma solo avendo sentito gli spari e il racconto
di Salazar passa per potenziale assassino e stupratore quanto gli altri. Anche lui avrebbe
potuto farlo.
Una TV riprende un reporter condurre gli spettatori sul luogo del delitto che racconta i
dati di fatto così come li racconta McCoy ma subito dopo un’altra telecamera, militare o
forse no, intervista Flake che oramai gestisce molto bene la demagogia del sistema e si
decolpevolizza di cosa è successo, manipolando con le parole tutto l’accaduto. In questo
modo un ennesimo (o forse lo stesso) paradosso viene fuori; è chi ha il potere che decide se
è la vista o la parola ad avere più capacità nell’esplicare la verità; le regole cambiano, si
dicono immutabili ma non lo sono. E quel che sono i nostri sensi, vista, udito, il linguaggio
stesso ha lo stesso valore della videocamera o della macchina da presa: non sono altro che
strumenti dei quali disponiamo per fare.
Flake e Rush ora usano il linguaggio e l’ideologia per discolparsi eppure è nelle parole
di uno dei due, all’interno di un discorso bello che pronto, che scappa una realtà che ferisce
lo spettatore e ci fa tutti responsabili: «… questa è una pagliacciata per la gente che sta
comoda a casa: io sono la mela marcia; ma siamo noi che teniamo la merda araba fuori dalle
vostre case e non dovremmo neppure rispondere a queste puttanate…». Tra la retorica del
fare il gioco dei terroristi a voler processarli, loro che sono i soldati, Flake dice una verità. E’
assurdo che lo dica “il cattivo”, ma è proprio nel tentativo di passarsi come “buono”
smascherando l’ipocrisia dualistica del “buono-cattivo” che Flake afferma se stesso come
agente, quindi attivo, ma anche come visione, e quindi a sua volta dato, per lo spettatore che resta a casa, al quale oramai spetta un’azione. Anche se non si quale.
E non si sa quale sia questo possibile potere spettatoriale perché il film non rinuncia
neppure nel momento della verità ad un ennesima ambiguità: dopo le dichiarazioni di Flake
sullo stesso sito nel quale McCoy aveva pubblicato la denuncia anonima, una giovane
americana androgina rockeggiante esprime la propria visione dell’accaduto. E anche qui, nel
discorso semplice all’inverso, antiamericano e colpevolizzante del sistema, dalle parole
scappa un’altra verità. Che non è tanto quella che i soldati stupratori e assassini siano degli
“indottrinati nazzisti, razzisti del cazzo” poiché noi sappiamo che Flake non arriva in Iraq
con odio verso gli iracheni ma è la prassi della guerra (sommata alla inesistente prospettiva
di avvenire nella sua vita da cittadino americano) a fargli assumere un certo atteggiamento,
e probabilmente la verità non è neppure che lo star system della Hollywood liberale non può mostrare la scomoda crudeltà delle immagini perché Redacted stesso ci mostra delle
immagini forti e non sono queste che sono fuori dalle nostre vite bulimiche di spettacolarità
orrorifica, ma la verità risiede nel fatto che le nostre analisi non sono lucide e che abbiamo
bisogno di fantasticherie violente per poter pensare alla giustizia.

Fine.
McCoy è tornato a casa, festeggia con la moglie e gli amici in un locale e uno di questi
riprende l’evento. I due si baciano e McCoy non ne può più di riprese ma cede al desiderio
dell’amico di essere fotografato (immortalato), ma il desiderio si trasforma nel desiderio di
conoscere storie di guerra, cioè dare un immagine, prendendola da un racconto reale, da un
corpo che ha conosciuto ciò che per noi è fantasia, dare un’immagine all’orrore. McCoy gli
accontenta. Il suo racconto è ascoltato in silenzio.
Ma anche questa confessione non è priva di ambiguità. Dicendo che in Iraq è stata una
cosa diversa dall’Afghanistan McCoy rimane ancorato al costante dualismo americanooccidentale,
tra giusto e cattivo, tra guerra sensata e guerra insensata, senza rendersi conto
della propria ambiguità o imperfezione irrisolvibile che non gli premette secondo le regole
del cinema classico di ascendere all’olimpo dei protagonisti. Nessuno può esserlo in
Redacted.
Così se mentre egli cerca una ragione che non trova a tutto quello che ha visto o fatto o
sentito, dice la sua verità: non ha fatto niente per impedire lo stupro e l’eccidio di Samara.
Ma gli amici lo distraggono, lo tranquillizzano che è una festa per un eroe di guerra e
applaudono al perdente e lo immortalano di nuovo in una foto che inaugura una sequela di
foto, questa volta reali, dei civili uccisi in Iraq, ma una sequela di foto “veritiere” che non
possono scartare le foto possibili dei delitti commessi all’interno della finzione della storia
narrata. Il copro stuprato, picchiato e bruciato della ragazza è lì a dirci che non ha
importanza se sia una foto vera o no. Quella cosa è successa e continua a succedere. A noi
rimane il senso dell’impotenza.

L’impotenza dello spettatore.
Dobbiamo leggere Redacted come un film postmoderno come altri che vuole parlarci
della crisi dell’icona e dello sguardo? Dell’impossibilità di uno sguardo onnisciente che
inizia con il desiderio di Salazar di divenire regista, passando per la maliziosa cecità di
Flake, per finire nella già annunciata sconfitta della coscienza morale di McCoy? Un film
che mostra un viaggio, quello dello sguardo che non elimina la violenza della guerra?
Oppure come suggerisce Livraghi, la simulazione dell’immagine, lo scarto tra visione e
conoscenza sono cose volute, più che questioni ontologiche o magiche.”La contraddizione
tra culto del falso e ricerca del vero” (Canova) è un ossimoro che ci confessiamo a fatica o ornandolo
di vecchi vizi idealistici.
Il film sembra, più che demoralizzarci, ma anche più del voler essere letto come un
ipertesto visivo che nega la linearità (che non può scomparire nel racconto), sembra volerci
porre una domanda: è l’abbondanza di immagini a creare la crisi o è nella ybris della vista?
Il problema è nelle nostre azioni o nelle nostre idee? E se fosse in entrambi, nella e per la
confusione tra le due?
L’immaginario sulla guerra non può essere reso in un film (ma al tempo stesso il film è il luogo  ideale per sperimentare la realizzazione di un immaginario), perché la violenza ripresa dal vero o da una ricostruzione non porta con se la stessa forza che vederla dal vivo.
Abbiamo bisogno di racconti cruenti, di giochi cruenti, il problema è che una volta filmati i
fatti concreti cruenti diventano giochi. Non per l’occhio, ma per il cervello. Per capire il
reale il film deve trasformarlo in finzione. Ma questo scarto non può portare alla resa.
Possono arrendersi i personaggi e persino gli spettatori, ma il film insiste nella sua
ambiguità, nella sua limitazione ad andare oltre. Un oltre che è tornare indietro, sentendosi,
con una vista interiore, che non è magica o istituzionale, ma è simile alla ricerca di un
regista star che non ci sta a fare solo film distribuibili e che potendoselo permettere
costruisce la sua storia per parlare dell’Altro e di Se’, di quel che c’è e di quel che non c’è.

Per parlare delle trasformazione che la tecnologia mette in atto sulla percezione, quale verità è possibile?

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